Alcol e gioco. Un binomio quasi inscindibile. Un’associazione di idee pressoché naturale, nell’immaginario collettivo ma non solo. Due settori economici tra i più fiorenti che, al di là di facili giudizi morali, interessano migliaia di imprese e centinaia di migliaia di lavoratori. E come tutte le eccellenze del nostro Paese, sono esposte allo stesso rischio: quello rappresentato dall’irrefrenabile tentazione dello Stato italiano di “entrare in società” tramite il fisco. Condividendo, naturalmente, solo per la parte che riguarda gli utili.
Da domani 10 ottobre, infatti, le accise sugli alcolici subiranno un incremento del 33%, portando la pressione fiscale al 47%. Questo vuol dire che, quando andremo a comprare una bottiglia di birra, dovremo pensare che la metà del suo costo sarà rappresentato da tasse.
Per qualcuno è facile pensare che sia giusto andare colpire i vizi degli italiani. Che se il fisco deve aumentare la pressione fiscale, è meglio che lo faccia su alcol, fumo… e gioco, piuttosto che su benzina e istruzione.
Peccato che il settore degli alcolici (vino, birra ecc.) in Italia interessi migliaia di imprese e oltre 500mila lavoratori. Mezzo milione di posti di lavoro che il crollo dei consumi, facilmente prevedibile dopo il sensibile incremento dei prezzi che la manovra porterà inevitabilmente, metterà a rischio.
È lo stesso principio alla base delle proposte di aumento del PREU (Prelievo Erariale Unico): prendi un settore che renda un po’ di soldini, con oltre 100.000 impiegati e 6.000 imprese (ad esempio quello del Gaming) e tassalo, spremilo, strizzalo fino allo stremo e nel contempo sottolinea quanto sia dannoso per la collettività. Per un po’ di mesi avrai consensi e un flusso erariale senza pari. Alla fine, quando la gente se ne sarà dimenticata e le risorse saranno esaurite, avrai migliaia di nuovi disoccupati e di aziende chiuse.
Ma niente paura. Basta scegliere con cura il prossimo obiettivo e la sopravvivenza della casta è assicurata.