Un chilometro o 500 metri. Vizio o passione. Patologia o dipendenza. Il gioco è da mesi al centro del dibattito su uno dei più controversi decreti degli ultimi anni. Gli interessi economici di uno dei settori più floridi dell’economia del nostro Paese si scontrano con benpensanti che oppongono eccezioni moralmente condivisibili, ma che troppo spesso sembrano ispirate dal semplice perbenismo conformista e populista. Lungi dal negare il problema, a chi nel mondo del gioco vive quotidianamente ed in modo critico lo affronta giorno per giorno, appare evidente la strumentalizzazione di alcuni argomenti, imbevuti di ideologismi politico religiosi che rischiano di sminuire la reale portata della materia. In vigore dal 19 settembre scorso, il testo finale è stato profondamente modificato rispetto a quello iniziale. Molte le voci sparite per accontentare un po’ tutti, sia i sostenitori dell’Industria del gioco, che i suoi detrattori. Sparito il divieto di pubblicità, ricomparsa la tanto discussa “distanza da luoghi sensibili”, ma con una modifica fondamentale: questa limitazione non riguarderebbe (ad interpretare il testo) le “sale da gioco” (termine depennato dall’Art. 11 comma 5 del Capo II), ma gli “apparecchi idonei al gioco d’azzardo”. Con grande soddisfazione accogliamo la novità: un non espresso ma implicito accoglimento di quella nodale distinzione, reclamata a gran voce, tra gioco d’azzardo e poker sportivo. Un passo fondamentale verso una più equa interpretazione di un mondo tanto complesso quanto controverso che necessita di una disciplina più attenta e approfondita.
In realtà si potrebbe dire: nulla di nuovo sotto il sole. Già nel gennaio di quest’anno era stata pubblicata una sentenza della Sez. III Penale della Corte di Cassazione (n.43679 del 25 novembre 2011), che legittimava “…all’organizzazione di tornei di poker texano che non costituisce gioco d’azzardo, ma attività sportiva come desumibile dal disposto dell’art. 38 della legge n. 248/2006”. Secondo la Corte infatti, a distinguere il Texas Hold’em in modalità torneo dal gioco d’azzardo, c’è la prerogativa di questa disciplina che non consente di “utilizzare il proprio denaro per effettuare puntate”, dal momento che i giocatori sono “dotati di un monte gettoni (dal valore puramente nominale) di partenza uguale per tutti”.
“Lo scopo del gioco – continua la Corte argomentando le motivazioni della sentenza – è riuscire ad accumulare tutti i gettoni in gioco. È eliminato il giocatore che vede ridotti a zero i propri gettoni, mentre chi riuscirà a impossessarsi di tutti, o comunque del maggior numero di gettoni degli avversari, sarà il vincitore della partita. L’esito della vittoria finale è remunerato … in via subordinata con un premio generalmente in natura e la cui rilevanza, a seconda del numero dei partecipanti, può suscitare anche un obiettivo interesse ma che rimane secondario rispetto al valore della vittoria in sé…”
Ciò che questa storica sentenza coglie in modo impeccabile (anche se forse accidentale) è lo spirito sportivo e competitivo del poker in modalità torneo, in cui l’obiettivo principale è la vittoria in se stessa, finalizzata magari “all’incremento del punteggio personale su base provinciale, regionale e nazionale”, come avviene per le classifiche del nostro People’s Poker Tour, e in seconda istanza al puro e semplice lucro.
Il poker è e rimane un gioco e, in quanto tale, deve essere prima di tutto un divertimento, uno splendido passatempo. Volerne fare una fonte di reddito non è sbagliato né biasimabile, ma non deve farci perde di vista lo spirito che lo anima.
Forse non dovrebbe essere una sentenza della Corte di Cassazione a ricordarcelo, ma molto spesso veniamo riportati sulla retta via da chi non ci aspetteremmo mai che lo facesse.